top of page

 

 

Io dissi: «Che città è questa che sulle carte geografiche non è segnata?». Egli rispose: «È una città grande, ricchissima e potente ma sulle carte geografiche non è segnata perché il nostro Governo la ignora, o finge di ignorarla. Essa vive per conto suo e neppure i mi- nistri del re possono entrarvi. Essa non ha commercio alcuno con altri paesi, prossimi o lontani. Essa è chiusa. Essa vive da secoli entro la cerchia delle sue solide mura. E il fatto che nessuno ne sia mai uscito non significa forse che vi si vive felici?». [...]

Ma la macchina con estrema buona volontà correva e alle 11,37 in punto Magalon che mi sedeva al fianco disse: «Ecco, signore.» E infatti vidi le mura della città che si estendevano per chilometri e chilometri, alte dai venti ai trenta metri, di colore giallastro, ininterrotte, qua e là sovrastate da torrette.

Avvicinandomi, notai che in vari punti, proprio a ridosso delle mura, c’erano degli accampamenti: tende miserabili, tende medie, tende da ricchi signori a forma di padiglione, sormontate da bandiere.

«Chi sono?» io chiesi.

E Magalon spiegò: «Sono coloro che sperano di entrare e bivaccano dinanzi alle porte».

«Ah, ci sono delle porte?»

«Ce ne sono moltissime, di grandi e di piccole, forse più di cento, ma è tanto vasto il perimetro della città che tra l’una e l’altra corre una notevole distanza.»

«E queste porte, quando le aprono?»

«Le porte non vengono aperte quasi mai. Però si dice che alcune si apriranno. Stasera, o domani, o fra tre mesi, o fra cinquant’anni, non si sa, è appunto qui il grande segreto della città di Anagoor.»

Molta gente era là in attesa. Beduini sparuti, mendicanti, donne velate, monaci, guerrieri armati fino ai denti, perfino un principe con la sua piccola corte personale. Ogni tanto qualcuno con una mazza bat- teva sulla porta, che rintronava.

«Battono» disse la guida «affinché quelli di Anagoor, udendo i colpi, vengano ad aprire. È infatti generale persuasione che se non si bussa nessuno mai aprirà.»

 

 

da Le mura di Anagoor,

in Sessanta Racconti, di Dino Buzzati, 1958

 

 

- E perché vi combattete? - Detesto questa domanda - disse Triperott, togliendosi la corazza - Comunque è sempre stato così fin dall’Incancellabile Offesa, dall’Onta primaria. Da tre secoli ce le suoniamo e la nostra economia è basata sulla guerra: insomma, viviamo di questo.

- Ma ci crepate, anche.

- Ormai siamo abituati, e poi non ci sarebbe da mangiare per tutti. Ma naturalmente il motivo principale della guerra è ideale. Il ricordo dell’onore calpestato che generò la faida sanguinosa. [...]

- E quale fu?

-Beh - disse Triperott grattandosi la testa e sfrattandone ditteri - tre secoli sono tanti, così per il vero, non ci ricordiamo più cos’è successo.

- Ma esisterà pure qualche libro di storia.

-Esiste, ma c’è scritto che “Quello fu l’anno dell’Incancellabile Offesa e dell’Onta primaria’’. Col cazzo che spiegano qualcosa. Mi raccomando, acqua in bocca. Ti confido questo segreto perché presto te ne andrai. [...]

 

- Siamo qui perché ci serve un po’ di istinto di sopravvivenza - disse Iri - una fiala per un nostro amico.

- Siete fortunati - disse Siperquater - sto proprio andando al Warmarket a comprarmi un’armatura estiva. Ma che strana, la nebbia in questa stagione...

I ragazzi notarono che il Supermarket bellico assomigliava assai all’Ipermarket da cui era iniziata la loro avventura. Ci si poteva trovare di tutto, dal pugnale alla catapulta, dagli scudi alle tende da campo, dalle divise ai cavalli di Troia. C’era un grande reparto di arti artificiali, uno di esplosivi, uno con cannoni di ogni calibro e gittata, e uno di strumenti di tortura, con dimostrazioni sul posto. Un colonnello triperotto passò vicino a loro con venti metri di filo spinato tra le braccia.

- Ehi, ma quello non è un vostro nemico? chiese Rangio.

- Qui è zona franca. L’Excalibur non fa distinzioni tra i clienti - disse Siperquater - ehi, Orone di Campuascio, che fai con tutto quel filo spinato, vuoi recintare il letto di tua moglie contro le incursioni notturne?

 

 

da Elianto,

di Stefano Benni, 1996

Contro

  • Per alcune categorie di detenuti non rispetta le necessità di sicurezza e isolamento.

  • Agisce con elementi esterni al carcere e non risolve quindi le emergenze strutturali del carcere stesso.

  • Necessita di spazi liberi intorno al carcere, spesso impossibili da reperire.

Pro

  • Vivere il limite, visto non come muro ma come zona intermedia, fatta di spazi ibridi che possano ospitare servizi utili a entrambe le comunità.

  • Scambio tra città e detenuti.

    Abbattimento del totem securitario e della stigmatizzazione del detenuto in chiave di reinserimento.

  • Valorizzazione pubblica delle competenze dei detenuti.

  • Forma di meticciamento.

  • Proposta intermedia di trasformazione dell’idea di pena: fattibile senza trasformare le strutture esistenti.

  • Crea occupazione per i detenuti.

CARCERE CON ECOTONO

La posizione del carcere nella città sancisce la volontà di connessione e di scambio o meno che si intende instaurare con il resto della cittadinanza libera.

In biologia l’ecotono è un ambiente di transizione tra due ecosistemi diversi. Il carcere ecotono è una struttura, interna alla città, caratterizzata da una fascia, uno spessore, in cui il mondo libero e il mondo recluso si possano incontrare in un rapporto di reciproco scambio.

bottom of page