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LE TAVOLE
IL LIBRO
IL MODELLO

l'opera

 

Il CARCERRARIO è il frutto di un lavoro di ricerca sul carcere realizzato in occasione di una tesi di laurea in architettura.

 

L’8 gennaio 2013 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo multa l’Italia per trattamento inumano e degradante di alcuni detenuti. Non è la prima e non sarà l’ultima condanna: il sovraffollamento è definito infatti dalla Corte un problema strutturale del nostro Paese. Il tasso di sovraffollamento, che si aggira oggi intorno al 142%, è legato a condizioni sistemiche che non vengono affrontate alla radice.

Gli enormi cambiamenti economici politici e sociali degli ultimi anni hanno tradotto l’insicurezza dell’individuo in paura diffusa, vulnerabilità e difesa dall’altro e dal diverso. I politici sfruttano questo disagio, incentrando i loro programmi elettorali sulla garanzia della sicurezza. Di fronte ai rimproveri di osservatori e voci critiche per la situazione che essi stessi hanno contribuito ad aggravare, non si trova soluzione migliore che sporadici, speculativi e effimeri palliativi.

Il carcere resta oggi una macchina escludente ed esclusa, dalla società e dalla città. Il carcere è al contrario res publica, soggetto di cui la collettività si deve far carico e non oggetto da occultare.

L’opera propone quindi di fermarsi a riflettere.

Ripensare, invece di affannarsi nel tentativo di correggere un sistema obsoleto.

 

L’opera indaga la categoria del perturbante. In psicoanalisi il perturbante è uno strumento utile a sgonfiare un’estetica vuota, che preferisce occuparsi del bello, del sublime e dell’attraente. Freud riconosce il perturbante come categoria estetica, che esiste entro i limiti di “tutto ciò che ingenera angoscia e terrore. […] Il perturbante appartiene alla sfera dello spaventoso e spesso coincide con ciò che è genericamente angoscioso”. La sua migliore traduzione si riscontra nel significato equivalente della parola tedesca heimlich, che deriva da heim “casa”. Heimlich vuol dire “domestico”, “che appartiene alla casa”, “familiare”, e allo stesso tempo “sottratto ad occhi estranei”, “celato”, “segreto”. Per quanto riguarda la conoscenza vuol dire “occulto”, “sottratto al sapere”, “inconscio”. Il significato di “nascosto”, “pericoloso”, si sviluppa ulteriormente fino a che heimlich tende a coincidere con il suo contrario, unheimlich.

“E’ detto unheimlich tutto ciò che potrebbe restare segreto, nascosto, e che invece è affiorato”. (Schelling, 1846)

L’opera affronta l’unheimlich, investigando lo spazio della reclusione.

 

Il ragionamento segue il metodo problematico: rispondere ai principali interrogativi inerenti alla detenzione relativi all’aspetto sociale, filosofico, territoriale, spaziale e sensoriale. Ogni risposta si rivela un errore, soluzione contestabile, parziale o inconsistente. Ogni errore genera una nuova domanda. Il processo continua all’infinito.

Il risultato sono 36 aporie, passaggi impraticabili, strade senza uscita. È un’impasse logica legata a uno stato oggettivo del problema, nel quale la realtà che si mostra nell’esperienza entra in conflitto con la realtà mostrata dalla logica. Le conclusioni generano antinomie nel loro essere aporetiche, contraddittorie.

È un ragionamento a diverse scale, dal territorio alla cella, e a più dimensioni: ogni tassello può essere osservato nella sua unicità o nella composizione generale.

I 36 tasselli del piano si ordinano seguendo i flussi del pensiero e della logica, disegnando involontariamente una città di errori, una città sbagliata, fatta di forme archetipe e impronte di tessuti reali. Ogni flusso è una strada, ogni strada ha un inizio e una fine. La fine non è un arrivo, ma solo il principio di una nuova strada.

 

L’opera è un labirinto. La prima relazione del perturbante con l’elemento spaziale è infatti legata alla mancanza di orientamento, lo spaesamento, e al saper trovare la strada. Lo schema di ripetizione del perturbante viene descritto da Freud in seguito ad una strana esperienza vissuta tra i vicoli di Genova. Dopo alcuni giri viziosi si ritirò per la terza volta nel luogo dal quale era partito e, nonostante tutti gli sforzi, non trovava la strada nota. Come se si trovasse in una stanza buia senza trovare la porta.

L’opera è dunque espressione dell’errore dell’uomo nella sua ricerca. Ma l’errore permette all’uomo di errare nel pensiero e nell’utopia, e di scardinare gli errori della realtà.

L’opera vuole essere uno spazio di condivisione, una tavola rotonda, un oggetto con cui interagire fisicamente e intellettualmente. La ricerca collettiva di una via di fuga.

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